Tiago Pinto ha lasciato la Roma da ormai più di un mese e dopo un periodo di silenzio è tornato a parlare in Inghilterra, dove nelle ultime ore lo hanno accostato al Newcastle, chiamato a nominare un nuovo direttore sportivo per l’imminente addio di Dan Ashworth. Sull’ipotesi, l’ex GM giallorosso ha detto: “Se un grande club come il Newcastle chiede di parlare con te, certo che sei interessato”. Poi ancora: “Conosco molto bene la storia del club perché Sir Bobby Robson era una grande personalità in Portogallo e lo associamo al Newcastle. Ho seguito il club per quella passione. Il lavoro svolto dalla nuova proprietà è stato davvero impressionante: con una strategia intelligente sono passati dal lottare per la retrocessione alla Champions League, significa che c’è un enorme potenziale al Newcastle. Non so se l’interesse sia vero o meno ma chi direbbe di no ad un progetto del genere?”.
Tiago Pinto prosegue raccontando il suo stile di lavoro: “Non sono il tipo che entra in un club e dice ‘Licenzia tutti e nomina le persone che voglio’. Non è il mio stile, preferisco entrare e conoscere prima. Un club è migliore se c’è un ambiente sereno, se tutti sono allineati”. Senza però derogare dai suoi principi fondamentali: “Ci sono tre o quattro cose che rappresentano gli elementi chiave di una strategia sportiva per me. Il primo è l’accademia (le giovanili, ndr), a cui dedico molto tempo ed energie. A volte non è abituale che gli scout della prima squadra conoscano il settore giovanile. Nelle mie squadre lo scout della prima squadra deve assolutamente conoscerlo. Per la mia mentalità non prenderei un giocatore di 19 o 17 anni proveniente dall’estero se avessi in rosa qualcuno con lo stesso potenziale. Se il mio scout non lo sa, non capisce cosa sta facendo. Credo molto nello sviluppo dei giovani e i giocatori cresciuti in casa sono importantissimi per il DNA del club e per la sostenibilità economica”.
Ancora Tiago Pinto sulla sua visione societaria: “Credo nei guadagni marginali. Le squadre che vincono di più sono le squadre che pensano di più ai dettagli: l’alimentazione, lo psicologo, i viaggi, la qualità dei campi dove ti alleni, il tuo riposo. Sono testardo su questo. Cerco di spiegare ai miei collaboratori: non importa se sei un medico, un fisioterapista, un magazziniere, quando torni a casa devi pensare ‘Cosa ho fatto oggi per aiutare la squadra a vincere nel fine settimana?’. Ovviamente questo richiede molta energia e talvolta le persone mi chiedono perché sono così interessato a queste cose? Viene dalla mia esperienza in un’organizzazione multi-disciplinare. Là non avevamo molti soldi, avevamo un gruppo e con quello abbiamo lavorato fino alla fine della stagione. E poi, voglio che le persone siano allineate. Non mi piace il conflitto. Forse è un difetto: mi lascio coinvolgere in cose che non sono il core business della mia attività ma voglio l’allineamento interno dell’allenatore, del consiglio direttivo, di tutti i reparti. Credo che più siamo uniti, tra tutti i reparti, più siamo vicini al successo”.
Alla parola ‘conflitto’, il giornalista inglese non riesce a trattenersi dal chiedere come ha fatto, allora, a lavorare con Mourinho, tra gli allenatori più esigenti del panorama. Risponde così Tiago Pinto: “Non fraintendermi, quando lavori con un uomo con un profilo così importante, è impegnativo. Ed è esigente perché ha ottenuto così tanto e ha standard elevati. Non dimentichiamo che sono portoghese e ho iniziato a lavorare con lui quando avevo 36 anni. Per un giovane direttore sportivo lavorare normalmente con Mourinho non è possibile. Ho imparato molto da lui. È uno degli allenatori più importanti della storia del calcio. Il calcio è come ogni cosa, ha dei cicli. A volte sei d’accordo, a volte non sei d’accordo, ma nessuno può minimizzare il grande impatto che aveva alla Roma”.
E non ha dubbi quando gli viene chiesto di spiegare cos’ha di speciale Mourinho: “Ciò che ti colpisce davvero ogni giorno è quello che significa per le persone. Non importa se sei a Londra, Reykjavik, Dubai o dovunque, ciò che Jose significa per le persone è qualcosa di straordinario. Ci sono allenatori che hanno vinto tanto o anche più di lui ma è difficile trovare qualcuno che tocchi il cuore della gente come fa lui. Ecco un piccolo esempio: un giorno giocavamo a Sofia in Bulgaria in Conference League, la partita era a novembre e il tempo terribile. Nevicava, faceva molto, molto freddo. Vincevamo 3-0 ma alla fine abbiamo vinto 3-2, è stata una partita molto brutta. Abbiamo vinto ma con brutti sentimenti. Tutti a quel punto vogliono farsi una doccia, prendere un autobus e andare all’aeroporto. Nevicava, era mezzanotte e quando è uscito dallo stadio io lo guardavo: aveva fatto 50 metri per andare dove c’erano 100 o 200 persone che gridavano per lui. È andato lì, ha fatto foto, ha firmato autografi. Ero sull’autobus e lo guardavo e pensavo: ‘Questo ragazzo ha vinto 25 titoli, è incazzato per la partita, tutti sono congelati e si prende 15 minuti per fare questa cosa’. Sembra un piccolo dettaglio ma alla fine lavoriamo per le persone. La cosa più speciale di Mourinho è il modo in cui lavora con le persone, la reazione che provoca in loro”.
Poi Pinto passa a raccontare alcune delle sue trattative a Roma: “Bisogna essere chiari con le persone. Il denaro e i contratti contano moltissimo ma cerco di gestirne il lato emotivo perché ci sono molte emozioni nel business del calcio. A volte solo il numero di maglia può fare la differenza. Quando abbiamo ingaggiato Tammy (Abraham, ndr) e lui era vicino a firmare per altri club, ci siamo assicurati che la prima volta che lo abbiamo incontrato avessimo una maglietta con il suo nome e il numero che avrebbe indossato con noi. Forse questo avrebbe significato qualcosa per lui”.
E gli agenti sembrano apprezzare il suo modo di fare: “È la mia personalità, cerco di essere metodico. Non sono il tipo che chiama tutti dicendo ‘potrei essere interessato al tuo giocatore’ e che lavora su un sacco di affari. Un agente mi ha detto: ‘Sei l’unico direttore sportivo che conosco che mi dice subito che non ti interessa!'”.
Uno degli aspetti dell’esperienza di Tiago Pinto alla Roma che sembra intrigare di più i club della Premier League è legata al modo in cui ha gestito la situazione di fair play finanziario nella capitale, portando più di 130 milioni di sterline di cessioni per contribuire a tenere il club in linea con le regole Uefa. “Per me il FFP non è un nemico”, spiega Tiago Pinto. “È qualcosa che influenza il tuo lavoro ma non è un ostacolo al tuo lavoro. Dobbiamo guardarlo a livello globale. Per proteggere il business del calcio servono regole, serve sostenibilità. Credo in questi principi perché credo che dobbiamo spendere meno di quanto generiamo. Per me come direttore sportivo è un buon punto di partenza. Non sono contrario. Penso che come strumento possa aiutare il calcio a essere più sostenibile in futuro. Queste regole ti spingono a cambiare il ruolo di direttore sportivo. Se dieci anni fa guardavi al direttore sportivo come a quello che vede le partite, seleziona i giocatori, fa i trasferimenti e basta, al giorno d’oggi è completamente diverso. Bisogna essere a conoscenza delle normative, bisogna sapersi sedere allo stesso tavolo dei responsabili finanziari, degli avvocati e comprendere tutto altrimenti sarà complicato fare il tuo lavoro. Penso che il FFP sia necessario, è qualcosa che non possiamo evitare. Stimola la creatività, il lavoro di squadra all’interno del club perché è necessario lavorare con figure diverse per arrivare all’accordo transattivo”.
Infine, nel giudicare l’esperienza alla Roma, Tiago Pinto la definisce “nel complesso un successo”, ma ora guarda avanti sperando che riesca a fare qualcosa che il club non è riuscito a fare durante la sua permanenza: rientrare in Champions League. Tiago Pinto, intanto, continua a cercare di migliorare: “Ho imparato dal mio primo presidente al Benfica. Di solito ero molto emozionato quando chiudevamo un accordo. Ma lui mi diceva ‘Se abbiamo chiuso così l’affare, vuol dire che potevamo fare meglio’. Voleva dire che nel momento in cui si trova un accordo anche l’altra parte è felice e questa non è una buona cosa. Puoi sempre ottenere un po’ di più, fare un po’ meglio. Penso che sia un buon modo di guardare alle cose”.
(inews.co.uk)